Lettera pastorale di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, sul futuro delle Chiese di Torino e Susa
…A partire da qui ponevo la questione essenziale, per la nostra Chiesa, di ripensare il nostro modo di essere presenti ed esistere come comunità cristiana sul territorio. Dobbiamo infatti prendere consapevolezza in modo lucido che mantenere semplicemente e stancamente il modello attuale significa condannarci a non essere più una presenza capace di trasmettere la ricchezza inesauribile e coinvolgente del Vangelo alle donne e agli uomini di oggi, tanti dei quali hanno una sete immensa di vita, di senso, di amore e di relazioni calde, in una parola, di Dio.
Per questa ragione, ciò che stiamo vivendo e che ci viene chiesto è qualcosa di bello e avvincente.
L’obiettivo è uno solo: essere una Chiesa fatta di comunità vive, nelle quali non solo si parla, ma si sperimenta davvero il Regno di Dio, di cui la Chiesa è come un germe. È il Signore, vivente in mezzo a noi, che ci chiede di essere cristiani gioiosi, a motivo di quella relazione con lui e tra di noi che ci è data di vivere e, dunque, testimoni credibili del fatto che vale la pena lasciare tutto e seguirlo. Lo sappiamo bene: questo mondo e questo tempo non sanno che farsene di cristiani stanchi, lamentosi, accidiosi, parte di un ingranaggio che si muove secondo la logica del “si è sempre fatto così”, forse senza neppure più sapere perché si fanno determinate cose… Il cammino di ascolto reciproco, compiuto quest’anno, aveva lo scopo di riconoscere in noi e intorno a noi tutto quello che ci appare come promettente, un “germoglio” appunto di comunità cristiane vive e impegnate nell’annunciare il Vangelo.
A partire da quanto è emerso, si tratta ora di muovere qualche passo concreto di cambiamento della nostra presenza sul territorio; di modificare qualcosa di quel che può concorrere a tal fine; e di dare il via a qualche nuova iniziativa in questa direzione.
Il nostro centro è Gesù
A me spetta, in quanto Pastore della Chiesa di Torino e di Susa, indicare taluni criteri a parre dai quali pensare il cambiamento e accennare ad alcune scelte operative, che trovano concretezza in alcuni cambiamenti già annunciati e che chiedono di essere accompagnate da un impegno ecclesiale intelligente e ricco della corresponsabilità di tutti i cristiani.
Vorrei però sgomberare sin da subito il campo da una possibile tentazione: quella di accostare quanto segue con l’atteggiamento dell’attesa messianica, quasi che ci si possa aspettare la salvezza da scelte concrete, inevitabilmente limitate e storicamente condizionate da fattori che spesso non dipendono da noi.
Dobbiamo invece vivere i passi che proveremo a delineare nella fiducia profonda che l’Atteso è Cristo e soltanto Lui; e che tutto quello che facciamo e scegliamo serve se ci aiuta a rimanere nell’attesa della Sua venuta, se ci è di sostegno a vivere nella speranza ardente che Egli venga e che verrà presto. Noi non attendiamo delle scelte o dei cambiamenti; noi facciamo delle scelte e dei cambiamenti, per rimanere sempre meglio in attesa della venuta di Nostro Signore Gesù Cristo. Noi siamo come in esilio, come afferma san Paolo (cfr. 2 Cor. 5,6); e viviamo in questo mondo da stranieri e pellegrini (cfr. 1 Pt 2,11), come dice san Pietro. È l’attesa del Signore ed è il vivere di Lui, sin da ora, che debbono rimanere il criterio di verifica permanente di tute le nostre scelte. Senza questo, tutto ciò che chiamiamo pastorale rischia di essere vanità!
Tre criteri per essere Chiesa
Vorrei indicare tre criteri di fondo:
- l’ascolto della Parola viva di Dio e la formazione;
- la centralità dell’Eucaristia nel giorno del Signore;
- la fraternità tra di noi, che si espande su tutti coloro che incontriamo.